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Quotidiane peregrinità

Nella società contemporanea la vita dell’uomo diviene transito.

Transito attraverso la città, attraverso i media, attraverso i rapporti sociali.

Transito come vacuità, instabilità quotidiana ed evanescenza.

Il portfolio cerca di ricollocare e riponderare la dimensione della quotidianità focalizzandola sul pensiero del perenne transito dell'uomo moderno. La trasformazione delle modalità di socializzazione, la gestione dei rapporti interpersonali e del tempo a disposizione ha creato un nuovo modo di vivere e di rapportarsi l'un l'altro.

La condizione di perenne transito ha trasformato la città in una enorme parentesi, una periferia, un non luogo. La vita, trasformata in transito, è diventata tregua di solitudine e di incomunicabilità.

Nei soggetti fotografati traspare l'assenza di rapporto con il fotografo, che diventa un'entità esterna, alienata. Lo sfondo della città non appare più reale di un trompe l'oeil. La scelta dell'utilizzo di una toy-camera appare particolarmente efficace, in quanto restituisce un'atmosfera onirica ed irreale, così come la scelta di impiegare un contrasto bianconero.

© Fotografie di Ilaria Oppimitti Anno 2008

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Stato in luogo

Queste fotografie sono il ritratto di quello che portiamo e non conosciamo.

Non necessariamente lo portiamo nascosto dentro: è in superficie, esposto e indifeso, inevitabilmente sincero, lasciamo che la sua immagine dica di noi.

Commento di Paolo Barbaro, Professore del Centro Studi e Archivio della Comunicazione | Università degli Studi di Parma

"La fotografa Ilaria Oppimitti decide, nel corso del 2009 di costruire una serie di immagini sul tema tutt’altro che inedito della condizione femminile, della violenza alle donne......Ilaria Oppimitti sposta il tema dentro l’ operazione fotografica, ne prosciuga i termini retorici e agisce un’ operazione vicina alla ricerca concettuale, però estremamente concreta. Occorre spiegare meglio. Non fotografa con violenza e sopraffazione (ricordiamo, invece, David Hemmings/David Bailey nella sensuale sequenza della seduta fotografica con Veruschka di Blow-Up, Antonioni 1966) ma cerca, anzi, di allontanare ogni elemento di imposizione: fotografa solo amiche, alcune sono colleghe, fotografe come lei, e preferisce siano loro a scegliere il luogo. Sono donne tra i 30 e i 40 anni, siamo quindi lontani dalle gioie amatoriali/impegnate (e un po’ pruriginose) delle bambine, ninfette, o vecchiesegnatedaltempo.  Età senza scuse, in cui le decisioni vanno prese, nessuna delega è più possibile, nessun affidamento a terzi è proponibile. Nessuna cupa indignazione, nessuna lieve ironia.

Il luogo è un muro: individuato da loro stesse, fondo neutro ma che reca tracce di vite passate, muri che hanno visto. Le amiche, nude dalla cinta in su, poseranno voltando la schiena a Ilaria, guardando la parete distante pochi centimetri, sufficienti perché la luce radente (deve modellare la forma del corpo, rilevare i segni del “loro” muro) proietti un’ ombra che fugge verso un lato del quadrato. Il fotogramma è quadrato, 6x6 cm, diapositiva a colori come nelle foto di moda, definizione acuminata della pelle, degli intonaci. E’ qui che l’ approccio progettuale, sistematico, quasi catalogico (memore forse delle Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari, delle serie di Gerhard Richter, su cui Ilaria Oppimitti avrà esercitato attenzione all'Accademia di Bologna, nei corsi di Claudio Marra) rivela estrema concretezza, realtà e verità, su almeno due piani.

In primo luogo (e di questo la fotografa parla con loro solo dopo l’ esecuzione, nessuna determinazione a priori dell’ effetto emotivo) lo smarrimento che queste donne provano strette, mezze nude, contro il muro, salta ogni mediazione estetica, giunge intatto a chi guarda la fotografia così normale e apparentemente asettica nella sua non-composizione. Vediamo, a eliminare ogni equivoco di estetizzazione glamour, anche i segni di qualche indumento impressi di recente sulla pelle: non sono nudi accademici che tendono alla perfezione del tipo eliminando ogni traccia del vivere quotidiano, liberarsi degli abiti non è qui liberazione dal disagio della civiltà ma esposizione del vivere profondo e a volte nascosto.

Un ulteriore effetto di realtà è nella scrittura, nell’ impostazione del progetto che lavora “a togliere”: sono ritratti privi di identificazione, privi di espressioni, di allestimento, di avvenimenti e di contesto narrativo, ma tutto il resto prende evidenza. Il dorso, la schiena è una parte del corpo che si sottrae alla propria vista: la possiamo vedere solo con complicati giochi di riflessione o, appunto, in una fotografia. La vede chi ci è alle spalle, chi ci guarda non visto; non si compiono normalmente operazioni cosmetiche in quel lato del nostro corpo: è versante esposto e indifeso, sottratto alla eventuale volontà di “allestimento” espressivo di chi lo porta. Ha comunque una fisiognomica precisa, parla della nostra vita, del nostro carattere, del nostro stile di vita; è comunque figura del desiderio, gli compete uno specifico richiamo sessuale, anche se i caratteri sessuali primari sono “fuori campo”.  Richiamo affidato in gran parte alla forma, ai confini visibili del corpo con il mondo esterno: ce lo ha ben mostrato Man Ray nel celebrato dorso di Kiki di Montparnasse (il Violon d’ Ingres, 1924) che riprende la Baigneuse dipinta da Ingres cent’ anni prima, da quest’ ultimo collocata in differenti quadri come segno cardinale della femminilità. Se queste donne fossero viste “dal punto di vista del muro”, o fotografate frontalmente, vedremmo dei ritratti, più o meno accademici o (nella direzione indicata dal fotografare della Oppimittti) più o meno segnaletici; la schiena, la nuca e la breve striscia di abbigliamento in basso li percepiamo come  frammenti, a cui riconosciamo in prima battuta solo il carattere di  luogo di segni, di sintomi, di tracce: roba da ortopedici, da polizia giudiziaria, da antropologi attardati su riflessioni lombrosiane. Certo, alla fotografa interessa la dimensione antropologica e sociale di questa operazione, ma in una direzione che ricorda magari le ricerche di Giuseppe Morandi sui Corpi di lavoro e di consumo, ovvero il corpo come luogo di manifestazione della condizione sociale, ma in questo caso teso più alla tipizzazione (come indicato da August Sander) che all’ individuazione dove si legano le dimensioni della biografia e della politica. Queste fotografie sono infine il ritratto di quello che portiamo e non conosciamo. Non necessariamente lo portiamo nascosto dentro: è in superficie, esposto e indifeso, inevitabilmente sincero, lasciamo che la sua immagine dica di noi."

STATO IN LUOGO | © Fotografie di Ilaria Oppimitti 2009/2010